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Virus

Ai tempi del virus

Un virus ci insegnò un modo diverso di vivere.

Erano anni che solo nelle giornate ferragostane che non si vedevano strade, piazze, paesi liberi di gente come a quel tempo.

Prima, dal Lunedì al fine settimana c’era sempre gente in giro, ovunque a qualsiasi ora. Gente per strada, gente, nei negozi, gente allo stadio, gente al supermercato. Gente in coda, gente in fila, gente al bar, gente al night.

Ora che tutti hanno paura, nessuno in giro a nessuna ora. Solo qualche corriere e qualche altro lavoratore, niente ingorghi, niente code, se non nei negozi ancora aperti, quelli che vendono da mangiare, tutti in fila distanziati ben bene.

Beh, a questo proposito anche stavolta gli Italiani non impararono a far la fila. Ne iniziavano sempre almeno due. Anche se non è difficile mettersi in fila, uno dietro all’altro, tutti dietro al primo della fila. Ma, no, sarebbe stato troppo facile. Non ce la fecero neppure allora, pazienza.

Deserto

Insomma nessuno in giro e forse stare in giro a frotte non serviva neppure prima? Chissà? Ma si sa, si stava bene al bar.

Al bar, vuoi mettere al bar? Un luogo senza la moglie, con tanti amici. Ma col virus, tutti in casa con la moglie, coi figli e senza amici? Che avranno fatto gli Italiani?

Avranno letto? O avranno giocato. Avranno…

Guardavano la TV, anche se… senza calcio, che palle.

Guardavano film, vecchi, almeno coloro che non avevano Netflix o Amazon.

E tutti, tutti si flippavano sui social.
Tutti pensavano di morire presto, e non sapevano quanto avessero ragione.

Sembrava impossibile, ma il virus riuscì a resuscitare “Forza Italia”. Tutti ad incitare la nazione. Come? No! Nooo! Non il partito che era già e restò defunto. No, solo come incitamento, più qualche bandiera Italiana in più. Meno qualche ottimista in meno. Tutti avevano paura e si facevano coraggio.

Il virus aveva fatto strage di certezze.

Alla gente era tornata la fifa.

Nessuno voleva contagiarsi, ne morire e allora scappava.
Non si poteva, era proibito, ma tutti volevano scappare. Tutti al sud, per la più grande migrazione inversa mai vista.
Segno che se si sarebbe potuto fare anche prima. Se ssi poteva stare senza bar, si poteva andare anche al sud.

E proprio vero.

Come hanno scritto nei libri di storia, ai tempi del virus cambiò il mondo.
Peccato che, subito dopo, morirono tutti.

Ceppoduro

Attribuzione immagine di copertina:
Di CDC/ Alissa Eckert, MS; Dan Higgins, MAM – This media comes from the Centers for Disease Control and Prevention’s Public Health Image Library (PHIL), with identification number #23312.Note: Not all PHIL images are public domain; be sure to check copyright status and credit authors and content providers., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=86444014

Blu

Blu

Lo chiamavano Blu da tanto tempo. Da quando, ragazzetto, portava i jeans al posto di quelli di fustagno con la piega.

Lui non ci aveva mai fatto granché caso, ma se lo chiamavano, si girava automaticamente. Alla fine il suo soprannome gli piaceva, lo gasava sentirlo ne “Le mille bolle blu” di Mina o in “Volare” di Modugno, ormai era il suo nome ed anche lui si sentiva così, come un puffo. Buffo, un puffo aristocratico, con il sangue blu: “E chi, se non io”, diceva.

D’altronde” Il mondo è grigio, il mondo è blu”, come canta Battiato in Cuccurucucu, e lui il mondo lo preferiva di quel colore, decisamente.

Certamente non lo avrebbe voluto nero, perché “personalmente austero vesto in blu perché odio il nero.” da “via Paolo Fabbri 43” di F. Guccini. Non sarà stata la frase più significativa di quel disco meraviglioso dell’omonimo album, ma gli era sempre piaciuta.

Il mondo

A blu piaceva anche incontrare persone con nomi simili al suo, simili nel senso di nomi di colori.

Conobbe alcune Bianca, Rosa, Rosina, Rosetta.

Celeste lo affascinò tantissimo, anche perché era una bella ragazza, colta ed intelligente che giocava assieme a lui sui colori.

“Non farmi arrossire”.

“Sei bianco come un cencio”.

Ma non andarono avanti per molto, la vita li portò altrove l’uno dall’altra e finì tutto.

Poi conobbe lei.

Non credeva fosse vero, lei lo faceva sentire elettrico, oltremare, e quando parlava con lei si gonfiava come un pavone.

Credeva di amarla e si convinse a provarci.

“Ti amo” le disse, ma lei, dopo aver cercato di trattenerla, fece una risata, rise a lungo, poi seria:”

“Ma che dici? Scherzi? Dai?”

A lui prese una fifa blu, si rese conto che stava per perderla.

“Ma io ti amo… Azzurra”. Balbettò.

“Volevo essere il tuo principe azzurro”.

“Ma sei solo Blu, non credi anche tu?”

Ceppoduro

Perdonami

Soffro più di te

Perdonami. Perdonami, chiedo perdono per quello che ho fatto senza te.
Ma soffro ancora di più da quando non ci sei tu, da quando ci siamo lasciati e sei andata via.
Poi ho incontrato lei ed era bella. Era bella e intelligente, diceva le cose che dici tu.
Era bella, aveva gli stessi occhi che hai tu, tu che mi avevi abbandonato, senza sapere perché.


Quando ci siamo lasciati sono rimasto solo, perso nel ricordo del nostro amore ormai finito.

Ma poi

Quando mi sono ritrovato, ero tra le sue braccia che mi sembravano le tue.
Si! Mi devi perdonare. Ti chiedo perdono, perdono, perdono perché soffro ancora senza te.
Io soffro ancora più di te perché abbraccio lei e mi sembri tu.

E’ vero, sto con lei per far del male a te, ma il male l’ho fatto pure a me. Ho pianto tanto e quando piangi non sorridi più. Quando mi ha sorriso lei, lo ha fatto che sembravi tu.

Perdonami

Sai che ti sogno ancora? Finché, di notte, non mi sveglio e accendo un lumicino. Mi sembra il sole che non vedo più da quando non sei più con me.

È strano, ma da quando mi hai lasciato, il sole non mi scalda più.
Perdonami, io soffro più ancora senza te. Ho sbagliato a non cercarti, volevo farti male ma il male l’ho fatto più a me.

Di notte non riesco più a dormire, sono sempre li a pensare a quando ci siamo lasciati e non ricordo più il perché.

E’ vero, guardo lei ma mi sembri tu, ma il suo abbraccio ancora non mi scalda come mi scaldavi tu. Sono solo e abbandonato e soffro senza te.

Si, lei è bella ma perché negli occhi suoi ci vedo te.

Perdonami.

Perdonami amore se ora muoio per te.

Ceppoduro

(*) Liberamente ispirato a Perdono di Caterina Caselli

immagine di copertina: Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4677256

Di notte

E’ buio

A letto, di notte, vorrei dormire, ma non posso. Qualcosa mi rode dentro. Non riesco e distogliere la mente, vorrei cambiare pensiero, vorrei correre in una valle fiorita, in primavera. Scalzo. Anzi nudo.

Ma niente, non posso non pensarci.

E’ strano, non sono mai stato ansioso, mai prima d’ora. Ma cos’è questa se non ansia?

Dovrei immaginare il domani, un nuovo giorno bellissimo, con tutti i miei figli attorno a me, festanti per qualcosa, per un nonnulla. Ma non li vedo, non ci riesco. Che sia la luce della luna, che mi abbaglia?

No neppure con la testa sotto le lenzuola trovo pace.

Eppure sono stanco, ho guidato il camion tutto il giorno, macinando chilometri su chilometri. Chi ha fatto il camionista lo sa quanto sia duro guidare.

Di giorno la radio

Meno male che di giorno la radio mi accompagna con le sue canzoni, con le sue notizie.

Non che mi piacciano tutte le canzoni che passano, anzi… le più fanno pena.

Non che mi interessino tutti gli argomenti di attualità o di politica. Per come li raccontano poi ne farei volentieri a meno.

Ma la radio fa compagnia, ti evita di dover pensare, è quasi come avere qualcuno accanto.

Solo che di notte torno solo e non posso accendere la radio. Sveglierei mia moglie. Non posso neppure dirlo a lei, la sveglierei.

E continuo a non dormire.

Sono mesi che ci penso, ormai è un’ossessione, e con il buio non posso scacciare questi pensieri.

Dormo sempre meno, ma devo guidare sempre di più.

E’ un guaio.

Di notte è buio

E’ buio di notte.

Dovrei dormire.

Conto i chilometri fatti.

Penso ai miei figli.

Penso a mia moglie.

Forse se non penso a niente. Se libero la mente. Se mi lascio andare…

Driiiiin.

Accidenti sono le sei.

Mi devo alzare.

Ceppoduro

I Bucinesi ed il gatto

Abbiamo i dati ufficiali

I Bucinesi. La metà di loro (*) vorrebbe un gatto.

Ora, per quanto strano vi possa sembrare, l’altra metà che non lo vuole predomina sui primi ed a Bucine, effettivamente, non c’è nessun gatto.

D’altra parte i Bucinesi tutti, è risaputo(**), hanno sempre mostrato comportamenti diversi rispetto agli abitanti di altri paesi, dove anche se ci sono persone che non amano i gatti, non per questo proibiscono agli altri di averne.

Ma a Bucine si.

Metà della popolazione è particolarmente soddisfatta di abitare un paese “degattizzato”, l’altra metà naturalmente non lo è.

Il gatto di Carnevale

Ora succede che questo anno sia bisestile e gli anni bisestile vanno particolarmente a genio ai gatti.

In aggiunta a questa congiuntura si approssima il periodo carnevalesco tradizionalmente gradito ai paesani.

Nulla sappiamo della relazione tra gli anni bisestili ed i gatti, ma è ben documentato come il Carnevale piace ai Bucinesi, ghiotti di cenci, bugie, chiacchiere e frittelle.

Durante quest’anno bisestile, c’è un giorno speciale di Febbraio, il 02-02-2020, un giorno dalla data magica col numero bifronte 02022020, in cui tutto poteva succedere e tutto successe.

A Bucine fu trovato un gatto.

Subito metà della popolazione si sollevò e l’altra metà fece le barricate. Chi per allontanare il felino, chi per integrarlo.

I Bucinesi ed un giudice

Ecco che dopo una mezza giornata di tumulti i contendenti si accordarono per trovare un giudice, una persona terza che potesse dire se il gatto potava stare a Bucine o meno.

Alla fine si sceglie uno di Gello Biscardo, che tutti i mercoledì viene a fare il mercato, a cui venne posto il quesito.

Il matto si tenne il capo tra le mani, come a pensarci su, poi alzò lo sguardo e disse:

“So cosa fare, ma vorrei che qualcuno mi dicesse qualcosa che non so,

altrimenti tra voi lo dividerò”.

Detto questo attese in silenzio che qualcuno lo apostrofasse per fargli cambiare idea.

Chi tace acconsente (I Bucinesi)

Silenzio.

Ancora silenzio…

Il giudice afferrò il gatto e un coltellaccio e divise il gatto in due.

“Così sarete soddisfatti”.

Esclamò.

E aggiunse: “Sapevate benissimo che se qualcuno avesse obiettato, il gatto si sarebbe salvato. Metà di voi non lo ha fatto di proposito. L’altra metà non ne ha avuto il coraggio”.

Ancora oggi non si sa perché questa triste storia carnevalesca finì così.

Giancarlo

(*) Bucinesi, abitanti ci Bucine (AR)

(**) Risaputa da e negli “sfottò” campanilistici tradizionali.

Mi scuso per l’immagine truculenta del gatto smezzato, ma qui non è reale, esso rappresenta il groppo alla gola, la biglia bollente che hai in gola e che non riesci ad ingoiare ne a sputare. L’insicurezza che non ti fa agire, o scegliere, quando invece dovresti. Le ragioni della guerra. Il denaro…

Mi chiedevo

Un giorno, diverso dagli altri

Mi chiesi se si potesse esprimere un concetto senza proferir parola. Mi chiedevo se un muto potesse parlare. E dire la verità, anzi rivelarla ad altri.

Lo stavo facendo, pensando tra me e me. Ne discutevo, parlavo a me stesso, senza che un altro fosse vicino a me. E stavo certamente percorrendo il sentiero che porta al vero. Ma se questo è vero, mi chiedo anche se si possa rispondere ad una domanda del genere con un si o un no. Forse potremmo farlo con un “ni”, ma ritengo sia meglio, più giusto e corretto farlo con un “noèèè”, strascicato.

Chi sa tace. Così, grazie a questo concetto posso illudermi di sapere dove andare. Davvero. Se ci pensate tacere sapendo è una bella cosa, in un mondo dove tutti fanno a gara a dire la loro. Anch’io saccente, nel “Blog di Bucine”, distribuisco pareri non richiesti, come se fossi esperto e sapessi tutto di tutto, anche sapendo di non sapere niente.

Mi chiedevo come fosse possibile

Un bravo asino si muove anche solo vedendo la frusta da lontano. Da buon apprendista, questo l’ho capito subito e mi sono adeguato. Mi muovo, cerco la nuova strada anche se non so dove andare, anche se non mi ricordo da dove vengo. Vedo la frusta lontana, vedo la sua ombra carezzarmi le natiche, ma non vedo chi la impugna, non c’è nessuno a guidarmi, mi devo arrangiare io. Solo io posso essere la mia guida, non seguire nessuno, guai a farsi portare da altri.

In questo modo si possono ottenere cose altrimenti impossibili.

Per camminare scalzi lungo lame taglienti o correre a perdifiato sopra laghi ghiacciati non serve seguire le orme di altri.

Devi andare sugli scogli e tenere le braccia alzate.

Segui solo la tua verità.

Ceppoduro

Basato su e liberamente interpretato da un kōan compilato nel XIII secolo.

In The Gateless Gate

Immagine di copertina di https://www.flickr.com/photos/lofa/

IO

Io sono Solo e Povero.

Mi chiamo Ceppoduro

Arriva un bel signore, si vede che può. Non ha i miei problemi per sbarcare il lunario lui.

Ho sete e non ho più una lira. Il barista non mi fa credito, non più, con tutto quello che gli devo.

Chissà se questo forestiero mi aiuterà, se vorrà aiutarmi. Sarà un tipo generoso ed altruista abbastanza da pagarmi da bere? Penso di si, in fondo non mi costa nulla provarci.

Mi aiuti amico

“Amico” esordisco dandomi coraggio, “sono Ceppoduro, sono solo a questo mondo, senza famiglia ne lavoro e sono assetato. Assetato come pochi ma povero, povero in canna. Il barista non vuole più servirmi, quella merda, con tutti i soldi che gli lascio, in cambio del suo vino acetoso; saresti cosi gentile da offrirmi da bere, te ne sarei immensamente grato”.

Lo straniero mi squadrò da cima a fondo, quasi divertito, poi mi chiese: “Ceppoduro, hai detto?” “Certo amico e crepo di sete” risposi.

“E’ strano” fece lui “qui servono un buon vino, l’ho assaggiato ieri sera, tu ne hai già bevuto tre calici e vorresti dire che fa schifo e che sei ancora assetato? Che le tue labbra sono ancora aride?”

Non avevo capito

Ma sentii uno al tavolo accanto commentare la cosa: “Ceppoduro ha alzato troppo il gomito e stavolta ha esagerato nelle richieste, quello ci vede bene, non si fa infinocchiare e lo manda a cagare”.

Il forestiero si rivolse a me con voce bassa ma con tono deciso: “Non penso di giudicarti male, lungi da me giudicarti, ma ho gli occhi per guardare e orecchi per sentire e mi pare che tu abbia bevuto troppo. Non pensi di aver bevuto troppo Ceppoduro?”

E continuò: “Però, nonostante tu sia l’uomo più povero di Bucine sei certamente anche quello più coraggioso. Non stai in piedi, per come sei ubriaco, e mi chiedi soldi per bere ancora come se io fossi ricco sfondato.

Ceppoduro

Basato su e liberamente interpretato da un kōan compilato nel XIII secolo.

Raccolto in The Gateless Gate

Casalingo

Nedo e Chiara

Nedo era un casalingo. Chiara l’aveva conosciuta una sera d’estate se ne era innamorato subito, perdutamente.

Lei era bella, elegante, istruita e intelligente. Poi aveva un sacco di soldi. Almeno a guardare come li spendeva, senza problemi, doveva averne veramente tanti.

Anche lui era bello, statuario, come siamo belli a vent’anni, ma di soldi meglio non parlarne, dopo la scuola dell’obbligo aveva trovato solo lavori saltuari, lavorando per tre mesi come postino, facendo un paio di stagioni a cogliere l’uva e poi le mele, poi cameriere in pizzeria, in un bar, baby sitter, aiutante giardiniere, tante volte a trapiantare le piantine nelle serre e così via, sempre contando in un pasto caldo a casa, dai genitori, con la mamma che ti acquista jeans e magliette e il babbo che ti riempie il serbatoio e ti da la macchina “bella” nel fine settimana.

Si. Per Nedo Chiara è stata un fulmine a ciel sereno, gli sembrava di aver toccato quel cielo con un dito. Era felice e felicemente innamorato. Poi si andava con la sua auto e pagava sempre lei, niente più bisogno dell’auto del padre o dei soldi.

Per Chiara Nedo non era solo il suo ragazzo, era la dimostrazione che lei, la secchiona, prima a scuola e poi al lavoro, ce l’aveva fatta su tutti i fronti. Era la realizzazione, la certificazione delle sue capacità del suo potere.

Lui faceva qualsiasi cosa lei volesse, ancorché assurda. Sapeste le volte che lo ha umiliato o fatto passare da stupido per la sua poca cultura. Ma lui niente, sembrava contento così.

Insomma erano fatti l’una per l’altro.

Si sposarono.

Tornarono a casa da lei.

Lei lavorava, lui faceva il casalingo.

Nedo faceva il Casalingo

Passavano le stagioni.

Lui teneva la casa, aspettando che tornasse la sera.

Lei a volte non tornava, a volte tornava, ma non cenava neppure, si cambiava e ripartiva, per tornare a tarda notte o la sera dopo.

Intanto passavano le stagioni.

Lei continuava a trascurarlo.

Lo sgridava.

Si incazzava.

Lui stava zitto.

Le stagioni continuavano a passare.

Nedo provò a ribellarsi, a dire qualcosa, ma lei gridava e lo prendeva a calci.

Lui disse basta, decise di andarsene, anche se non sapeva dove. Gli erano già morti entrambi i genitori.

Una sera andò via, gonfio di botte.

Uscì di casa e dormì alla stazione.

Il giorno dopo rientrò, non sapeva che fare.

Chiara questa volta si incazzò di brutto, anche lui si alterò, non voleva più subire in silenzio.

Chiara livida di rabbia per la sua ribellione, estrasse una pistola e gli sparò al petto. Un fiotto di sangue la raggiunse, era caldo, ma si ghiacciò subito, poi si sentì sporca.

Tutto era tutto rosso.

Chiara si appoggiò la pistola sotto il mento… poi tutto divenne nero.

Ceppoduro

Il cielo

E’ notte

Il cielo è terso si vedono “tutte” le stelle, stanotte.

L’aria rarefatta ne porta la luce facendola tremolare, tanto che le stelle sembrano animarsi, come una folla al mercato.

“Che bello”.

Viene da chiedersi se ci siano altre forme di vita lassù.

Pensare alla distanza “siderale” delle stelle fa venire i brividi. I metri, i chilometri perdono di significato, dobbiamo usare gli anni per riferirci a loro. Anni luce, distanze che la luce percorre in anni, tanto sono lontane da noi e fra se. La cosa più veloce che conosciamo, la luce, ci impiega così tanto a colmare le distanze tra le stelle che noi, con le nostre miserevoli possibilità, non potremmo nemmeno pensare di raggiungere la stella più vicina.

Consapevoli di questo, anche se ci fosse un’altra forma di vita da qualche parte non la scopriremmo mai.

Un contatto

Certo in teoria potremmo captarne i suoni o le luci. Ma questi alieni dovrebbero essere in grado di emettere questi segnali e di emetterli modulati, in modo che noi possiamo distinguerli dal resto, dal sottofondo e magari capirne il significato. Dovrebbero essere forme di vita intelligenti, o almeno intelligenti nel modo in cui lo siamo noi. E’ difficile.

Ammesso che tali forme di vita esistano sarebbe quasi impossibile incontrarle, se è vero che l’universo si espande e tutto si allontana da tutto il resto, è difficile pensare che qualcosa si avvicini a noi, che questo qualcosa contenga della vita, e che questa cosa sia capace di farsi notare, o noi di notarla.

Quindi state tranquilli, non finiremo invasi dagli extraterrestri. Non ci sono extraterrestri in giro. Se ci sono extraterrestri da qualche parte non arriveranno mai da noi, ne noi da loro.

Ma guardiamo il cielo

Continuiamo a guardare il cielo ed a meravigliarci di quello che vediamo, sempre diverso anche se non ce ne accorgiamo, sempre bellissimo, questo si che possiamo vederlo.

Continuiamo a stare col naso all’insù domandandoci se ci sia vita su Marte o su Andromeda o nella Via Lattea, in fondo anche se sappiamo che non c’è, possiamo continuare a sperare che ci sia e non sia terribile e vendicativa come quei Dii e Dei che ci hanno sempre raccontato abitare il cielo.

Giancarlo

Gioiello (detto Joy)

Nascere poveri è brutto (*)

Gioiello, Joy come lo chiamavano gli amici, era nato povero, i suoi genitori erano contadini smessi, che nel ‘70 lasciarono il casolare per trasferirsi in paese, per trovare la felicità.

Contrariamente agli altri vicini, i suoi non avevano rubato niente al padrone della fattoria dove erano a mezzadria, ne gli rubarono qualcosa al momento di lasciare il podere, ne chiesero niente o fecero causa a lui o a chicchessia, come tanti a quel tempo.

Insomma da poveri contadini tristi divennero poveri operai, ma felici. Felici di poter garantire un avvenire al figlio.

Il padre che faceva il manovale in una ditta edile, la madre restò a casa ad accudire Gioiello. Allora non c’erano gli asili nido ne altre comodità odierne.

Comunque il babbo si ammazzò di lavoro per farlo crescere felice, che stesse meglio di lui, almeno.

Si ammazzò nel vero senso della parola quando, un giorno, cadde dal ponte che stava montando ed andò a battere la testa sulla betoniera, 7 o otto metri più sotto.

Gioiello di mamma

La mamma, disperata, superò a stento il dramma di quanto successo. Quando andò a servizio, la vita ricominciò a sorriderle. Riuscì anche a far studiare Joy, in modo che potesse trovar lavoro in banca ed essere felice.

Joy studiò sodo, voleva far contento la madre e poi voleva emergere, voleva lasciare quella condizione economica precaria.

Fu felice quando entrò in Banca, come cassiere, i soldi cominciarono ad arrivare e la miseria era ormai un ricordo.

Fu triste quando morì mamma ma la vita deve continuare come lo spettacolo.

Cominciò la sua carriera: tanti i cambi di ufficio, tanti quelli di mansione, tante automobili nel frattempo. Si sentì appagato e felice solo quando le fecero direttore generale, riuscendo a farsi una bella macchina, una casa grande in collina, una bella moglie giovane ed anche dei figli, che erano un amore: Belli ed intelligenti anche loro. Era finalmente felice, ricco e felice, non avrebbe desiderato altro, se non che anche i figli si sistemassero; in prospettiva, meglio di lui.

Ma un giorno, la mazzata. I figli erano stati arrestati per droga, non solo consumo ma anche spaccio. Droga pesante, di quella che si inietta.

Quando riuscì ad incontrarlo chiese al figlio maschio perché? E lui facendo spallucce “Oh babbo, per noia”.

Joy, Ohi.

A Joy crollò il mondo, sentì che nonostante tutti i soldi che aveva, e che aveva dato alla famiglia, che non aveva reso felice nessuno, nemmeno se stesso. Nepure conosceva i suoi figli, sua moglie, non aveva amici se non quelli interessati agli affari o che interessavano a lui per i suoi affari.

Non conosceva nessuno, veramente.

Non era nessuno, realmente.

Non era felice come non lo era nessuno intorno a lui, con lui.

Giancarlo

(*) Racconto basato sul paradosso di Easterlin.